Diluvia, piove che dio la manda, sembra di affogare in un mare d’acqua. Siamo al 13 agosto e questa estate brightoniana davvero stenta a decollare, non è mai decollata, e mi sa che è già finita. Così io mi trincero nelle mie sicurezze livornesi, nella dolce aspettativa di quel caldo che mi aspetta, così caldo che fino a che non ti ci tuffi non te lo ricordi cosa vuol dire. Quel caldo che è maniche corte e spalle scoperte anche di sera, quel caldo che le scarpe chiuse danno noia, fanno sudare troppo, quel caldo che devi dormire scoperta la notte, anche il lenzuolo va buttato da una parte. Continua a leggere
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I greci
A casa mia, a Livorno, si dice “vai a fatti benedi’ dai gre’i!”, un modo poco elegante ma efficace per consigliare a qualcuno affetto da sfortuna di varia natura di cercare una soluzione per tale sventura.
Di solito si arriva a meritare un tale consiglio in caso di un paio di sventure, che ne so, una brutta influenza seguita da un lieve tamponamento, o più membri di famiglia affetti simultaneamente da qualche male di stagione. O anche quando un male qualsiasi, anche di lieve entità, come raffreddore o influenza, colpisce nella stagione sbagliata. Magari me ne sto bella bella al moletto di Antignano e sono colta da starnuti e tosse, è caldo, è estate, c’è il sole, e il passante occasionale, squadrandomi, si potrebbe permetter di dirmi che devo andare a farmi benedire dai greci.
Questo non vuol dire che devo prendere un aereo e volare fino ad Atene, semplicemente basta andare in via della Madonna, a Livorno, presso la chiesa dei Greci, luogo dove appunto si può richiedere la benedizione, sperando di scampare a nuove disavventure.
Le mie vacanze livornesi, seddiovole appena finite, ecco, si possono definire proprio così, coi “greci”. Una sfiga dopo l’altra in una spirale crescente di violenza. Continua a leggere
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Elogio della noia ospedaliera
Per qualche momento ho pensato di iscrivermi a un concorso di sfiga. Una cosa tipo sfigometro, dove una giuria raccoglie le informazioni sulle sventure, le sfortune e gli incidenti dei concorrenti e poi valuta il grado di sfiga secondo vari parametri – che ne so, generale, personale, familiare, lavorativo, delle malattie, dei mezzi di trasporto. Ho pensato che potrei essere una valida concorrente.
In realtà non sono poi così sfigata. Il punto è che in questo momento sono ricoverata all’ospedale, per polmonite, e allora ho una vaga tendenza a vedere il lato buio delle cose. Ma come dice una mia amica, basta poco e il mio insopportabile ottimismo, il mio insopprimibile spirito da Pollyanna riemergerà e tornerò a vedere il lato bello delle cose.
Quindi, per andare con ordine che c’è da dire? In realtà dall’inizio dell’anno non avevo avuto tante disavventure, quindi pensavo ormai di esser fuori concorso, dopo aver avuto un ottimo 2012 di merda che secondo me mi dava credito per qualche annetto di tranquillità.
Quindi la Pollyanna che è in me mi suggerisce che questo ricovero sia solo un episodio isolato e mi spinge a trattarlo in quanto tale.
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Signora, dovrebbe prendere un appuntamento telefonicamente.
Nota su una scena di ordinaria incomprensione con un’infermiera di uno studio medico.
Ebbene sì, nonostante il 2012 sia ormai finito, chiuso, passato, archiviato, pare che i malanni non abbiano ancora del tutto abbandonato il mio corpo. Così questa settimana mi sono goduta una bella influenza, al completo. Ho iniziato con la febbre, piuttosto alta, poi è arrivato un mal di gola terribile e alla fine anche un bel raffreddore, di quelli che ti fanno parlare come l’orso Yoghi (do, do, non scherzo, parlavo proprio così, dudda chiusa e nasale).
Arrivata a giovedì ho ingenuamente pensato di essere ormai sulla dolce discesa della guarigione, così la sera me ne vado a nanna tutta contenta, sperando che finalmente una bella dormita, un lungo riposo, mi potessero regalare un risveglio finalmente in forma, o almeno con un naso meno gocciolante. E invece. Continua a leggere
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Il peso della distanza – maledetti 800 km
Che è stato un anno di merda, finora, l’ho già accennato qua e là. Che pare che una nuvola di sfiga, stile Fantozzi, aleggi sulla mia testa (e in generale sulla famiglia) pare ormai assodato.
Pochi giorni fa, realizzando la concretezza della data sul calendario, mi sono azzardata a tirare un sospiro di sollievo. Ho pensato “ma guarda, ancora 2 settimane e quest’anno di merda è finito”. Beh, il 21 dicembre magari finisce il mondo e ci togliamo il pensiero direttamente.
Profezie a parte, mi maledico ancora, per aver pensato che, essendo quasi la fine di quest’anno, fossi finalmente al sicuro da altri eventi funesti. Infatti oggi mi è arrivata una notizia bruttissima. Un persona cara se n’è andata. Se n’è andata di botto, buon per lui. Se n’è andata dopo aver vissuto tanta vita, e credo sia stata una bella vita. Se n’è andata come avrebbe voluto andarsene, senza soffrire e senza brutte malattie di quelle che ti mangiano corpo e anima. Ma comunque se n’è andata e ci sto male. Piango e mi dispiaccio, gli volevo proprio bene. E domani c’è il funerale e io non ci vado. Forse ce la farei, partendo alle 4 di mattina, ma sarebbe un casino mostruoso. La vita qui si tiene su fili sottili di equilibrio e sarebbe complicato alterare questo equilibrio, precipitandomi domani a un funerale a 800 km da qui.
Maledetti 800 km. A questo giro la distanza mi pesa. Al mio caro “zio” cambia ben poco, se vado o meno al suo funerale, credo. Per la sua famiglia, attonita in questo momento doloroso, credo che la mia presenza sia più o meno un dettaglio. Hanno ben altre gatte da pelare. Ma a me cambia, eccome. Cambia perché è un commiato simbolico, un saluto. Cambia perché non sono laggiù col resto della famiglia a ricordare i suoi scherzi, i suoi modi, a ridere tutti insieme per non piangere, in quel rito familiare del ricordo che allevia un po’ la nostalgia che ti assale quasi subito. Cambia perché piangere e abbracciarsi e consolarsi a un funerale, o prima, o dopo, sono gesti ed emozioni che vanno vissute, di ciccia, anche se fanno male. Trattenere le lacrime e il groppo alla gola al telefono, invece, non fa bene per niente. Dover mandare un telegramma di condoglianze perché non si può essere lì di persona, non fa bene per niente.
Insomma, se non s’è capito, mi girano le palle. Mi girano perché tra dieci giorni non andrò a trovarlo con mio nonno, non mi farà le sue battute, non mi darà le sue pacche, non mi farà i suoi scherzi teneri e buffi e uguali da anni. Mi girano perché sua moglie ora è sola e forse ancora non si può esser resa conto. Mi girano perché non importa se aveva più di 80 anni, le persone a cui vuoi bene non le vorresti perdere mai. Mi girano perché questa volta questi 800 km che mi separano da casa sono tanti, pesanti e cattivi. Mi girano e basta.
Così è meglio chiudere qui, maledicendo, almeno per stasera, questi benedetti 800 km e anche un po’ quest’anno di merda che non si sbriga a finire una volta per tutte.
A Vasco, con affetto.
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Elogio dell’efficienza tedesca
“Signora, la devo avvisare, c’è da aspettare tanto”
Dovrei scrivere un post sulla sfiga, visto che in questo 2012 gli eventi funesti sembrano particolarmente attratti da me e dalla mia famiglia. Ma visto che alcune ferite si devono ancora rimarginare e non me la sento di parlarne a vanvera, sempre restando in tema di sfiga e dintorni, voglio proseguire col gioco delle differenze Italia vs. Germania.

momenti idilliaci – bimba e mamma sulla prima neve
Domenica mattina ci siamo svegliati ed era tutto ricoperto di neve, c’era una luce fantastica e, come la famigliola del mulino bianco, siamo usciti tutti insieme.
La bimba quasi duenne era estasiata, camminava a mezza gamba nella neve, urlando felice “guarda qui, c’è di neve, tutta neve, è ghiaccia” (si sa, è toscana). Io e lui ci siamo presi a pallate di neve, e io, patata come sempre, ho subito come sempre. L’idillio è proseguito allo spielplatz (parchino giochi) dove c’è un gioco bellisismo, una sorta di skilift, ma orizzontale, al quale ti aggrappi dopo una rincorsa per poi ondeggiare su e giù appeso a un cavo d’acciaio.
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